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Le Zone Economiche Speciali per la filiera dell’idrogeno

Svoltosi un importante convegno internazionale nei giorni scorsi a Pescara, intitolato “Energy for the future of industrial areas”, organizzato dall’Agenzia regionale per le attività produttive nel ruolo di braccio operativo della Regione Abruzzo, in cui si è rilanciata l’azione delle Zone Economiche Speciali per la ripresa, la crescita e la ricerca innovativa di tutta la filiera produttiva ed energetica dell’idrogeno. L’evento ha avuto al centro della discussione “le opportunità offerte dalla tecnologia dell’idrogeno verde, che consente di immagazzinare, stoccare e rendere fruibile l’energia prodotta da fotovoltaico, eolico e idroelettrico, con zero emissioni, e in prospettiva a prezzi competitivi per imprese e famiglie, anche alla luce dell’aumento del costo del gas e petrolio, e delle incertezze geopolitiche che incombono sulle forniture“.

Mauro Miccio, commissario di governo per la Zona Economica Speciale dell’Abruzzo, ha confermato che a breve sarà sottoscritta una convenzione con Arap, l’agenzia regionale dell’Abruzzo, che potrà dispiegare le sue competenze e compiti anche nelle aree industriali dei 37 comuni abruzzesi che sono stati ricompresi nelle Zone economiche speciali, istituite dal decreto legge 91 del giugno 2017, all’interno delle quali le imprese già operative o di nuovo insediamento possono beneficiare di agevolazioni fiscali e di importanti semplificazioni amministrative. “L’Arap è pronta a estendere le sue competenze anche nelle aree di insediamento industriale dei comuni ricompresi nelle Zone economiche speciali (Zes) abruzzesi, che potranno dunque essere anche loro protagoniste della creazione della filiera regionale dell’idrogeno verde“, ha dichiarato il direttore generale dell’Arap, Antonio Morgante. I grandi centri di consumo dell’idrogeno possono dare il via a economie di scala nella versione verde del vettore, rendendo il passaggio ancora più conveniente rispetto alle nuove applicazioni distribuite. Una strada già imboccata nell’Unione europea, come confermato da Ruud Kempener, responsabile delle politiche comunitarie. Kempener ha affermato che la Commissione punta al 50% del consumo di idrogeno verde per l’industria entro il 2030. L’obiettivo attuale è di 5,6 milioni di tonnellate per la fine del decennio, ma l’Unione europea sembra essere in grado di superare il target producendo almeno 10 milioni di tonnellate sul mercato interno e importando ulteriori 10 milioni di tonnellate.

Può la cultura rappresentare un volano di sviluppo per il territorio?

Può la cultura rappresentare un volano di sviluppo per il territorio? A questa domanda ha risposto, Valentina Di Milla, Aministratore Delegato di RALIAN REsearch & Consultancy srl, nel seminario informativo promosso dall’Istituto Tecnico Economico “Fermi” di Gaeta (Italy), rivolta agli studenti del triennio dell’indirizzo Marketing e dell’indirizzo Turismo.
Nel mio speech focalizzato sul tema dell’impresa culturale e creativa, un nuovo modo di fare economia a livello globale, che prevede l’umanizzazione dei processi produttivi, la creatività come cuore pulsante dell’azienda, la promozione culturale al centro dell’interesse imprenditoriale.
Riconosciute dall’Unione Europea come fattore essenziale per la crescita economica e sociale dell’intero territorio europeo, partecipando al Prodotto Interno Lordo UE per circa il 3%,
le imprese culturali sono la nuova sfida in un contesto economico innovativo.
L’impresa culturale può contribuire all’umanizzazione dell’economia:essa rappresenta una rete di valori umani posta al centro di un progetto economico di diffusione di bellezza territoriale, culturale, artistica, tecnologica, creativa e, dunque, professionale.
Ne consegue che l’industria creativa e culturale è un naturale valore aggiunto per qualsiasi altra impresa del comparto industriale.
L’intervista è disponibile dal minuto 2.32 su https://www.youtube.com/watch?v=jrztDvlEHQE.

L’impresa culturale e creativa

L’impresa culturale e creativa

Qualche decennio fa investire in un’impresa culturale e creativa era senz’altro la decisione più visionaria che si potesse adottare. Essa era al centro di un ardente dibattito che vedeva come attori principali il mondo politico da una parte e il mondo scientifico dall’altra. La percezione del cosa fosse il comparto dell’industria culturale era assolutamente negativa: un’industria che non ha input reali né altrettanti output tangibili, certamente è un’industria che non produce. In realtà, il frutto dell’intelletto umano, della sua fantasia e del suo particolare estro è una produzione in senso economico a tutti gli effetti. Sarà proprio il mondo politico oltre Manica, attraverso le parole di Tony Blair, allora Primo Ministro inglese, a riconoscere il valore economico dell’industria creativa, attribuendo a quest’ultima la capacità di creare ricchezza e lavoro attraverso l’utilizzo della proprietà intellettuale. Accanto a tale riconoscimento ne nacque un altro, diretta conseguenza del primo: la straordinaria portata creativa ed innovativa insita nelle imprese del comparto culturale di stimolare una spirale virtuosa di crescita in campo economico e sociale. In Italia, alla fine del 2007, il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, nel suo discorso di fine anno affermò che “un punto di forza del nostro paese è la cultura della creatività, che deve far considerare grande il potenziale delle nostre imprese e del nostro lavoro”. E’ oltremodo innegabile che la creatività favorisca lo slancio dell’economia e ponga le aziende in una posizione di vantaggio competitivo. Ecco quindi l’esaltazione della portata economica e sociale di un nuovo modo di fare economia che, dopo un decennio circa da queste affermazioni, si manifesta in tutta la sua verità: il valore umano, le persone, la loro formazione e lo sviluppo delle loro conoscenze, costituiscono il reale valore aggiunto di un’impresa.
Possiamo oggi facilmente affermare che l’impresa culturale è in grado di determinare un’inversione di tendenza nel concetto di economia, una sorta di cultural mood, di apprendimento a 360°, di sostenibilità ambientale e sociale, nonché di rivoluzione umana che aggiunge valore e lo distribuisce sul territorio, attraverso le generazioni che crescono in un ambiente con stimoli estremamente elevati ed inclusivi. Si può definire un’ipotesi di umanesimo economico che, pur sembrando una contraddizione in termini, rende perfettamente l’idea del fenomeno: una rete di valori umani posta al centro di un progetto economico di diffusione di bellezza territoriale, culturale, artistica, tecnologica, creativa e, dunque, professionale. Ne consegue che l’industria creativa e culturale è un naturale valore aggiunto per qualsiasi altra impresa del comparto industriale.
In estrema sintesi l’essenza dell’industria creativa e culturale consiste nel trasformare le idee in progetti e, attraverso questi ultimi, modificare le coscienze e le persone, stimolando contemporaneamente la crescita economica e sociale. Si tratta di un output che si raccoglie nel lungo periodo, dopo anni di investimento umano e professionale, che è inequivocabilmente il risultato di una “visione” divenuta realtà, il risultato di un investimento incredibile, una scommessa per molti persa in partenza ma che oggi vince, e che in futuro si affermerà ancor di più perché la bellezza, la cultura, l’uomo e la sua rinascita, il suo essere parte di un ambiente e le sue radici non sono mai fuori moda, non sono mai una tendenza ma una continua scoperta e, si sa, le belle scoperte hanno cambiato l’umanità. Attraverso l’esperienza economica e sociale dell’impresa culturale e creativa abbiamo potuto sperimentare che esiste un solo modo di mettere le ali alle imprese: credere nelle persone e dare valore al loro impegno, dare voce alle loro idee e non aver timore di portare avanti progetti visionari. Le persone sono il vero valore aggiunto di ogni impresa.
La nostra conclusione si fonda sull’osservazione delle dinamiche interne e gestionali di una impresa di ambito culturale/creativo. Infatti, in tale ambito industriale non bastano le sole skills personali e le conoscenze tecniche. La conditio sine qua non che sta alla base del successo e della capacità innovativa di un’impresa culturale è irrinunciabilmente l’ambiente in cui opera, in modo tale che sia incoraggiata la sua visione creativa e, contemporaneamente, un’economia che voglia seriamente investire su di essa. E’ un processo complesso che basa la sua stessa sopravvivenza su una condizione necessaria e sufficiente, identificabile con la coesistenza e la perfetta collaborazione di assets irrinunciabili ed insostituibili in quanto unici, quali le idee, le capacità, la preparazione, la perizia ed il talento, con innovazione tecnologica e cultura. Quest’ultima, è il fattore produttivo in grado di innescare l’intero iter di produzione culturale e creativo attraverso il quale giungere allo sviluppo di nuovi prodotti.
Inoltre l’analisi di un’impresa culturale deve essere esaminata da ciascun tipo di attività potenzialmente erogabile. Se la osserviamo secondo un’ottica di produzione artistica, il potenziale creativo si esprime in tutta la sua imponenza attraverso l’ideazione e la realizzazione di un quid mai realizzato prima, un prodotto unico e autentico, frutto di immaginazione, di stile e di ispirazione. Le ripercussioni economiche ne sono l’immediata conseguenza e si chiudono come in un cerchio perfetto in cui non è più possibile comprendere il suo inizio e la sua fine, proprio perché quell’innovazione instaura un ciclo ininterrotto e dinamico che trova la sua giustificazione economica nell’allocazione più che perfetta di intangible assets unici, tra i quali si possono annoverare l’estro artistico, le innovazioni tecnologiche e i nuovi scenari economici, con la combinazione di fattori umani, sociali, istituzionali e culturali. Ne consegue che la creatività non è “soltanto” l’ispirazione che sottende all’innovazione, ma è uno dei principali ed irrinunciabili fattori che contribuiscono al suo sviluppo. Infatti le idee creative sono indispensabili sia nella fase iniziale sia durante tutto il suo processo di produzione. Da esse nascerà la consistenza economica del progetto, a partire dalla sua creazione, fino alla distribuzione del nuovo output (prodotto, servizio e/o processo) che massimizzi l’utilità del consumatore finale apportandogli il maggior beneficio attraverso il suo acquisto. Tale processo virtuoso produrrà effetti nel lungo periodo.
L’Unione Europea conferisce grande importanza al comparto culturale e attraverso l’articolo 167 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione europea (TFUE) ne sancisce la sua disciplina, stabilendone i principi e il quadro attuale attraverso contenuti sostanziali e procedure decisionali.
Non è un caso, infatti, che nello stesso preambolo del Trattato sull’Unione Europea (TUE) si rimarchi la precisa volontà di ispirarsi «alle eredità culturali, religiose e umanistiche dell’Europa» attraverso l’impegno concreto a rispettare «la ricchezza della sua diversità culturale e linguistica e la vigilanza sulla salvaguardia e sullo sviluppo del patrimonio culturale europeo» (articolo 3 del TUE). Questi principi ispiratori permettono l’introduzione di un’importante novità nell’ambito delle procedure decisionali in seno al Consiglio. In particolare, le decisioni relative agli ambiti culturali (principalmente per quanto riguarda il formato e l’ambito dei programmi di finanziamento) non sono più gravate dal vincolo della procedura di approvazione all’unanimità, come in passato, ma si considerano adottate attraverso l’espressione del voto a maggioranza qualificata. La ratio è da riscontrarsi nel tentativo di favorire uno sviluppo completo delle culture degli Stati membri, pur nel rispetto delle singole diversità nazionali e regionali, al fine di esaltarne il patrimonio culturale comune.
La tutela della cultura trova accoglimento anche nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea. In particolare, l’articolo 13, recita «le arti e la ricerca scientifica sono libere» e l’articolo 22 stabilisce che «l’Unione rispetta la diversità culturale, religiosa e linguistica».
Pertanto non è azzardato concludere che, per l’Unione Europea il settore culturale è uno degli strumenti privilegiati in grado di attuare i più alti obiettivi di prosperità, solidarietà, sicurezza ed internazionalizzazione. Proprio quest’ultima, in particolare, non può realizzarsi al di fuori di un processo di riconoscimento e di contemporanea tutela della diversità culturale e del dialogo interculturale. La cultura, nell’ottica del legislatore comunitario è da intendersi come un vero e proprio acceleratore di creatività e di relazioni internazionali.
Il programma quadro “Europa creativa” dedica 1,46 miliardi di euro al settore culturale e creativo per il periodo 2014-2020. E’ strutturato nel Sottoprogramma Cultura e nel Sottoprogramma MEDIA e in una sezione “transettoriale” che agisce attraverso un fondo di garanzia istituito con la duplice finalità di agevolare da un lato l’accesso al credito per le micro, piccole e medie imprese del settore e dall’altro di consentire una più precisa ed equa valutazione dei rischi in sede di intermediazione finanziaria. Si tratta, più dettagliatamente, di provvedere a creare un ecosistema imprenditoriale e finanziario inclusivo e lungimirante, che valorizzi tutte le enormi potenzialità del settore e, al contempo, rassicuri gli investitori pubblici e/o privati sull’affidabilità e sulla capacità economica del comparto culturale e creativo.
E’ bene sottolineare che proprio in questo mese di dicembre sarà definito l’ammontare del budget a disposizione del settore cultura. Da un lato, indiscrezioni parlano di un ampliamento del plafond messo a disposizione del settore culturale e creativo portandolo ad un incremento pari a circa il doppio di quello previsto nel periodo precedente. Tuttavia, esistono altrettante preoccupazioni circa profondi tagli al settore, come paventato da Sabine Verheyen, presidente della Commissione CULT dell’UE.

Le argomentazioni addotte sinora resterebbero sterili parole se non fossero supportate, come sono, da numeri e statistiche. In particolare, secondo la più recente pubblicazione periodica di Eurostat il settore culturale e creativo quale propulsore di crescita economica:

  • contribuisce per oltre il 2% al Prodotto Interno Lordo europeo;
  • è un’importante fonte occupazionale con più di 8,7 milioni di posti di lavoro al suo attivo, per un valore pari al 3,8% dell’occupazione totale. La conferma di quanto affermato viene proprio dalle imprese definite altamente innovative, le quali posseggono un potenziale economico importante e la possibilità, attraverso canali di finanziamento alternativo ed altamente innovativo (crowfunding, smart finance, business angels), di penetrare il mercato in modo dirompente generando altra occupazione, oltre che stimolare il commercio con l’estero.
  • è un settore dinamico e stimolante in grado di attirare talenti unici e menti “transilienti”. Un melting pop di diversità ed unicità che stimola, affascina, attrae, innova, crea, realizza, riproduce, abbellisce, incanta, monetizza, insegna, eleva. Una variegata costellazione di professionalità che spazia dalle arti “creative, artistiche e d’intrattenimento”, alle “biblioteche, archivi, musei e altre attività culturali”, nonché dal settore della produzione e programmazione delle attività audiovisive, radiofoniche, cinematografiche, discografiche, al settore delle attività di design specializzate.

Benvenuti in una nuova era, quella in cui fare impresa è questione di cultura.

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UNA POSSIBILE IPOTESI DI ZONA ECONOMICA SPECIALE CON FUNZIONE ECONOMICO-POLITICA.

La questione della ricerca della migliore via di uscita per realizzare una Brexit più satisfattiva possibile rispetto agli interessi nazionali ed internazionali (anche divergenti) in gioco, come è noto, include un un’ulteriore problema: la gestione dell’affare “Irish Border”.

Evidentemente è un problema non da poco, perché senza una soluzione ad hoc, si tratterebbe di applicare le rigide e complicate regole del regime doganale vigente in base al CDU nei rapporti commerciali tra l’Unione Europea e i Paesi terzi, lungo un confine di circa 500 chilometri che invece da oltre 46 anni, dal punto di vista dei flussi merceologici, è stato di fatto un “weak border” soggetto alle regole del mercato unico.

In base ai più recenti dati circa il 33% delle esportazioni di beni e servizi dalle imprese dell’Irlanda del Nord vanno verso l’Eire.

Nel 2018, l’interscambio dell’Irlanda del Nord con l’Eire è consistito per circa 3 miliardi di sterline in esportazioni, 2 miliardi di sterline in importazioni, equivalenti ad un saldo commerciale di 1 miliardo di sterline e a un commercio bilaterale di quasi 5 miliardi e mezzo di sterline.
L’Eire è stato sia il 1 ° mercato di esportazione per l’Irlanda del Nord (pari a circa il 36% del totale delle sue esportazioni) sia il 1° mercato di importazione (pari a circa il 28% del totale delle sue importazioni).

Nel dettaglio, la maggior parte delle transazioni transfrontaliere è stata effettuata da micro e piccole imprese, che dominano l’economia dell’Irlanda del Nord, con circa il 74% delle esportazioni coinvolgenti imprese con meno di 50 dipendenti.

Il flusso di scambi commerciali dell’Regno Unito verso i Paesi esteri riguarda per circa il 6% l’Eire, che costituisce il 4° Paese con cui ha maggiori connessioni, dopo USA , Germania e Cina. L’Irlanda (IE) è la principale destinazione di esportazione per l’Irlanda del Nord (NI) e rappresenta circa un terzo (£ 3,4 miliardi) del valore delle esportazioni di beni e servizi da parte delle imprese locali

Lo stesso rapporto di interscambio se è analizzato dalla parte irlandese, rivela che sul totale delle relazioni commerciali verso l’estero il flusso con il Regno Unito incide per il 18 %, e costituisce il 2° Paese con cui ha maggiori connessioni dopo gli USA.

Secondo il The Guardian ogni anno 450 mila rimorchi arrivano nell’Irlanda del Nord trasportando dalle automobili, ai generi alimentari, ai prodotti tessili: il valore complessivo dell’importazione da parte del Regno Unito  è pari a 13, 4 miliardi sterline, di cui circa 11 miliardi di sterline corrisponde al valore dei beni acquistati e

La continuità di tale interscambio va salvaguardata.

Il Regno Unito prima del processo Brexit, nella Belt and Road Initiative (BRI), rappresentava il partner potenzialmente chiave per la Cina per mediare all’interno dell’Unione Europea su temi particolarmente “caldi” da un punto di vista commerciale. Quindi adesso “Downing Street” dovrebbe trovare una soluzione per salvaguardare la propria capacità competitiva sui mercati, che potrebbe essere fortemente influenzata, sia a causa del processo Brexit sia a causa del mancato coinvolgimento (per il momento) nella BRI.

A tale proposito l’Eire è pronta dopo la Brexit a sostituire la Gran Bretagna come nuovo interlocutore fidato della Cina nella promozione della Belt and Road Initiative, secondo quanto ha dichiarato nei mesi scorsi il ministro degli Esteri e vice primo ministro irlandese. D’altronde il buon legame fra il governo di Dublino e quello di Pechino annovera storicamente molti esempi di buone relazioni commerciali a partire dal ruolo di modello svolto dalla Shannon Free Zone creata nel 1959, e di tutor dei suoi funzionari rispetto alla creazione delle prime zone economiche speciali nella Cina meridionale nel­ 1980, per alimentare la riforma economica e commerciale, la c.d. «politica della porta aperta», lanciata da Deng Xiao Ping.

Quindi per Londra è vitale tenere conto di tale prospettiva perché le ricadute sul Regno Unito potrebbero avere effetti molto negativi proprio a partire dalle conseguenze economiche create sugli interscambi commerciali che avvengono attraverso il confine tra l’Eire e l’Irlanda del Nord. La creazione di conseguenze negative di carattere economico, espone però anche al rischio dell’eventuale riemersione di possibili attriti di carattere politico in questa delicata area, storicamente mai definitivamente sopiti.

Ecco perché il contenuto di alcuni punti proposti dal Governo inglese per l’Accordo Brexit vanno nella direzione di creare lungo il confine irlandese una sorta di zona economica speciale.

Tale idea potrebbe avere un’importante valenza politica, e ciò sarebbe in linea con l’evoluzione funzionale nel mondo delle ZES. Infatti l’aumento della rilevanza come strumento politico per attrarre investimenti, determinerà una sempre maggiore attenzione sia delle singole ZES sia dei Paesi a guardare oltre i confini amministrativi e quindi a sviluppare approcci integrati transnazionali allo sviluppo delle ZES.

Pertanto nel caso di specie sarebbe molto auspicabile la creazione di una ZES “cross country” ad esempio soprattutto nell’area di Derry City-Donegal, come è avvenuto in altre parti del mondo, ad

L’avallo da parte dell’Unione Europea di tale soluzione potrebbe essere un’opportunità concreta per le istituzioni di Bruxelles di abbandonare la propria anacronistica posizione di sostanziale ostracismo dogmatico e preconcetto sulle ZES (divenute in ogni parte del mondo sempre più congeniali al contesto storico di sviluppo economico globalizzato e dipendente dalla connessione con le Global Value Chains, che rappresentano oggi quasi il 50% degli scambi in tutto il mondo) e di attuare invece una più efficace “realpolitik“, con effetti di importanza non solo economica ma anche, come nel caso di specie, di evidente peso specifico su temi politico-diplomatici.

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Valentina Di Milla

Amministratore Unico

RALIAN Research & Consultancy srl